Secondo la leggenda, la città di Noto, le cui rovine giacciono oggi sul Monte Alveria, un’altura cuoriforme a sette chilometri dal sito in cui si trova l’attuale città barocca, fu fondata da Ducezio, re dei Siculi (488 a.C. – 440 a.C.). Nel 903, durante la dominazione araba, la città diventa capovalle del Val di Noto, uno dei tre distretti, insieme al Val Demone e al Val di Mazzara, in cui la Sicilia rimase divisa amministrativamente fino all’epoca borbonica. Nel 1503, il re Ferdinando II d’Aragona conferisce a Noto il titolo di Città Ingegnosa. Nel 1693, sotto la dominazione spagnola, la città è distrutta da un violento terremoto e viene ricostruita più a valle, sul pendio del Colle Meti. Nell’Ottocento, Noto perde il ruolo di capovalle in favore di Siracusa. Nel 1837 la città diventa capoluogo di provincia. Dopo l’unità d’Italia, nel 1865, il capoluogo è trasferito nuovamente a Siracusa. Nel 2002, insieme ad altre otto città del sud-est della Sicilia, Noto viene inserita dall’UNESCO nella lista dei beni patrimonio dell’umanità per la testimonianza eccezionale del genio esuberante dell’arte e dell’architettura del tardo barocco che essa offre.
Il presente sarebbe pieno di ogni possibile avvenire, se già il passato non vi proiettasse una storia. André GIDE, I nutrimenti terrestri |
Parte prima
PRELUDIO (La carne)
Il governo d’Italia è stato vigliacco col Mezzogiorno. Sa di poter osare tutto quaggiù; e, nel fatto, può tutto osare, e tutto osa quaggiù. Ormai il governo dispone del Mezzogiorno elettorale. In venti anni lo ha, elettoralmente, demoralizzato.
Anno 1901. Sono le parole di Giustino Fortunato, meridionalista, Senatore del Regno. Le scrive in una lettera a Pasquale Villari, storico, Senatore del Regno.
Se noi cittadini del Sud avessimo un po’ più di amor proprio ci approprieremmo del nostro passato senza complessi, dignitosamente, e spiegheremmo la Questione Meridionale già nelle scuole materne, ne stamperemmo degli stralci sui tovagliolini con cui serviamo i cannoli al bar o sulla carta oleata con cui incartiamo le scacce alle patate, ne faremmo manifesti da appendere nelle sale dei municipi, nelle aule delle scuole, negli uffici postali. Invece la QUESTIONE MERIDIONALE, la questione fondante del Meridione attuale, sì proprio di questo Meridione in cui viviamo, è relegata a solo un paio d’ore d’insegnamento nelle classi finali delle scuole superiori. Strano, per conoscere la storia più recente del Meridione d’Italia, per conoscere le ragioni per cui il Sud è quello che è, e i motivi per cui gli abitanti del Sud sono quello che sono, dei mezzi-cittadini, questi stessi abitanti devono attendere la maggiore età. Perché? Per quale ragione nel nostro paese occorre essere maggiorenni e aver la fortuna di frequentare un liceo perché sia pubblicamente fatto accenno alla storia costituente del Sud d’Italia? Un insegnamento scolastico, per di più, che dura solo qualche ora.
La risposta la troviamo sicuramente nel semplice fatto che la storia recente del Sud, la storia che comincia con l’unità d’Italia, è una storia scomoda. Scomoda! Sì, scomoda per il Nord e scomoda per il Sud. Ma anche comoda. Comoda per il Nord e molto, molto comoda per il Sud. Una storia scomoda/comoda, comoda/scomoda. Ma fino a quando?
L’Unità d’Italia è stata, purtroppo, la nostra rovina economica. Noi eravamo, nel 1860, in floridissime condizioni per un risveglio economico, sano e profittevole. L’unità ci ha perduti. E come se questo non bastasse, è provato, contrariamente all’opinione di tutti, che lo Stato italiano profonde i suoi benefici finanziari nelle province settentrionali in misura ben maggiore che nelle meridionali. Giustino Fortunato, anno 1899.
La Questione Meridionale è chiarissima: dall’unità d’Italia, la gran parte, se non tutte, delle scelte vitali che hanno riguardato il Sud sono state prese dalle classi dirigenti del Nord per il tramite dei governi del Regno prima e della Repubblica dopo. Per venire ai nostri tempi poi, è risaputo, perfino i libri di storia contemporanea ormai lo affermano senza esitazione:la Democrazia Cristiana ha fatto del SOTTO-SVILUPPO del SUD una cinica strategia politica, un suo elisir di lunga vita. Con la fine della DC, l’elisir è passato di mano, ma è oggi più che mai attivo. La Questione Meridionale è iniziata nel 1861 e non è mai finita.
Se si omette tale aspetto decisivo della storia del Meridione, oggi, per un osservatore neutrale, magari proveniente da un’altra galassia, al quale, dopo averlo portato di città in città, di paese in paese, daremmo il compito di dirci la sua sullo stato della Sicilia, ebbene per un tale osservatore non sarebbe assurdo affermare che un secolo di impegno civile sarebbe più che sufficiente a fare della Sicilia, del Sud, un paese normale. Cento anni. Cento anni basterebbero. Ma se il nostro osservatore dovesse invece imbattersi nelle storia del Meridione, se dovesse scoprire la portata e l’eredità della Questione Meridionale, se dovesse intuire la maglia di infiniti nodi invisibili che ingabbia la nostra società, allora concluderebbe che neanche sette secoli sarebbero sufficienti. Sette! Sette secoli! Neanche sette secoli: uno sforzo titanico. Biblico.
Padre (l’intelletto), Figlio (il corpo) e Spirito Santo (il cuore)
Guardando al corpo, le ferite e i danni al territorio sono profondi e irreversibili se constatiamo gli scempi che vanno dalle raffinerie sulle coste alle opere pubbliche e private incompiute, inutili, mostruose, assurde, abusive, alle più modeste ma numerosissime discariche illegali, all’urbanizzazione selvaggia, all’abusivismo di ogni genere. E se si pensa al resto, è sufficiente dire che gli abitanti del Sud non siamo collettivamente ancora mai stati cittadini. Non siamo considerati come tali e come tali noi stessi non ci consideriamo. In termini politici, noi siciliani, pur avendo un’intelletto e un cuore individuale, siamo solamente corpo, CARNE ELETTORALE. Una carne che puntualmente, in occasione di ogni elezione pubblica, viene sacrificata sull’altare del sistema dei partiti nazionali e locali i quali, dopo averla condita con facili e mirabolanti promesse, finite le elezioni, puntualmente, la gettano ai cani. La storia recente della città di Noto, la storia di cui noi viventi siamo protagonisti, è una storia emblematica del Sud, un’eredità tipica della Questione Meridionale. Ma, in aggiunta, essa ha degli aspetti unici, se non paradossali, per via di un passato di prosperità economica e di supremazia politica di cui solo poche città della Sicilia godettero, di un terremoto catastrofico, e di un presente di decadenza, di degrado e di sottosviluppo sociale, economico e politico che perdura fatalmente da qualche secolo.
1693
La storia della città di Noto, per via delle diverse dominazioni che si succedettero nell’isola, è una storia fatta di una moltitudine di storie. Il susseguirsi di una dominazione sull’altra, spesso in tempi assai ristretti, spiega la ricchezza culturale e le tantissime contraddizioni della cultura siciliana, tuttavia, a differenza di altre città dell’isola, la città di Noto ha una particolarità che la contraddistingue: a seguito del sisma del 1693 la città viene ricostruita in un altro sito. La continuità geografica viene quindi interrotta e la Noto nuova si rivelerà totalmente differente dalla Noto antica, non solamente sul piano architettonico, ma su tutti i piani.
NETUM CITTÀ FANTASMA
Stranamente, il legame tra la Noto nuova, barocca, e la Noto che la precedette è un legame molto debole. Se non fosse per le poche rovine che sopravvivono sul monte Alveria, per qualche opera d’arte trasportata nella città nuova e per qualche citazione in rari testi di storia, tale nesso sarebbe del tutto marginale e persino dimenticato. Sì, per noi attuali abitanti della città di Noto la storia della nostra città inizia nel 1693 ed è la storia della città barocca. Una storia breve, di soli 300 anni. Ciò non è un fatto di poco conto se si pensa che Noto antica era nel 1693 una città economicamente florida che vantava in Sicilia di una posizione politica di spicco. Ma nell’opinione diffusa che i netini moderni hanno della storia che li ha preceduti Noto non è Netum. A creare la discontinuità, a fondare la distanza tra la città barocca e la città del monte Alveria, oltre al fatto elementare che la città nuova non venne ricostruita dalle sue macerie, probabilmente contribuirono anche altri due elementi: il fatto che la costruzione di una nuova città in altro luogo dava agli abitanti superstiti la possibilità di dimenticare più facilmente le distruzioni e gli orrori del sisma; il fatto che sfortunatamente di Netum, della sua storia, si è sempre saputo poco.
Pochi chilometri di distanza tra le due città sono bastati a creare una distanza metafisica enorme, quasi Noto antica, una città del Seicento, fosse invece una città della preistoria siciliana: nella Noto barocca non esiste nessun monumento moderno, nessuna stele che commemori la città del monte Alveria e i suoi abitanti – netini ancor prima di noi. Strano, ma è così. Perché? Ingratitudine? Bisogno di dimenticare? L’uno e l’altro?
LA ROTTURA
È risaputo che dopo il terremoto si aprì un lungo e animato dibattito: se ricostruire la città sulle sue macerie, nello stesso sito, o se costruirla altrove. Nella scelta di costruire la città sul colle Meti pare abbia pesato la volontà del duca di Camastra, vicario generale del viceré, il quale, per calcoli di natura puramente economica, propense per la costruzione ex-novo piuttosto che per la ricostruzione della città distrutta. Ma è legittimo pensare che le conseguenze psicologiche del sisma nella popolazione e soprattutto nelle classi dominanti abbiano avuto un peso ugualmente determinante. Andando a vivere in un altro luogo, in una città interamente nuova, i netini potevano più facilmente sottrarsi al ricordo dell’evento traumatizzante, distruttivo, mortale che aveva raso al suolo la loro città, mettere una distanza concreta e simbolica tra loro e le distruzioni del terremoto e iniziare una vita del tutto nuova. Ricorrendo alla psicoanalisi, nel cercare di comprendere tutte le ragioni di una tale scelta, potremmo fare appello al concetto di rimozione. Ma la rimozione è un meccanismo istintivo di difesa che non risolve granché se non temporaneamente e superficialmente, poiché l’inconscio non rimuove proprio nulla, anzi incorpora gli eventi traumatici vissuti nelle proprie viscere e li fa vivere di vita propria, animandoli, nutrendoli, ingigantendoli, tramandandoli di generazione in generazione, per secoli. Trecento anni sono poca cosa. La vita di tre o quattro esseri umani. Cosa rimane allora oggi di quel trauma nei discendenti dei terremotati del 1693? Se l’effetto immediato del terremoto fu quello di suscitare una voglia di nuovo e un sentimento di rivalsa sulla natura (rivalsa che si poté materializzare nella costruzione di una città – barocca – che si reclamava ancor più magnifica della natura stessa), quali furono gli effetti più profondi, nascosti e più ritardati nel tempo? Il sisma del 1693 non rase al suolo un semplice villaggio contadino, ma una delle città capovalle della Sicilia, una città di primati, primati conquistati con lotte, sacrificio, fatica. Netum, una fortezza, una città inespugnabile, ricca, potente, e… bum, spazzata via in una notte. Rimase allora il senso esasperato della fragilità e della provvisorietà della vita, dell’illusione di ciò che ci circonda, della caducità delle opere, la sensazione profonda dell’impermanenza di qualunque realtà. Di fronte al disastro, di fronte al dolore, inoltre, ci si scoprì uguali, ricchi e poveri, nobili e popolani, tutti completamente uguali. Certo si sarebbe potuto convivere con tali profonde verità – anche se bruscamente rivelate. Si presentava l’occasione di trasformarle in una nuova forza vitale, in una responsabilità morale più elevata, in una coscienza civile inedita per quei tempi. Ma la paura ebbe il sopravvento: a che serve tanto penare, edificare palazzi, espugnare terre, avviare imprese e commerci, conquistare primati, accumulare ricchezze, costruirci intorno mura di cinta quando in una sola notte, pochi secondi, un boato e tutto è spazzato via? Ecco cosa andò più verosimilmente ad annidarsi nel cuore dei netini quella notte del 9 Gennaio 1693, ecco ciò che divenne il lascito invisibile dei terremotati alle generazioni future: il senso della vanità, un fatalismo acuto, caducità assoluta. Probabilmente ci volle qualche decennio perché tali sentimenti si sistemassero per bene nei labirinti dell’inconscio della popolazione terremotata, ma lì infine rimasero, conservandosi di generazione in generazione, fino a noi, dilatandosi, aumentando, rinforzandosi, manifestandosi col passare del tempo sotto forma dei comportamenti negativi tipici in cui noi netini ci riconosciamo: l’immobilismo, la superficialità, l’individualismo, l’indolenza, la negligenza, il fatalismo.
Una città florida e potente, un sisma terribile, i giochi dell’inconscio nell’animo dei superstiti ed ecco tracciato in modo inconsapevole il futuro di una comunità, ecco confezionata la zavorra psicologica che i netini, dalla notte del sisma, si tramandano di generazione in generazione, passandosela in silenzio d’inconscio a inconscio.
Alla luce di tali riflessioni risulta più facile capire perché la scelta di ricostruire la città in un altro sito non fu solo una convenienza operativa ma anche una necessità psicologica. Una rottura fu ciò che sembrò più propizio. La ricostruzione della città a valle rappresentò dunque la rottura netta col passato che si cercava sia sul piano pratico che su quello simbolico, ma le motivazioni psicologiche di tale scelta ebbero come conseguenza diretta il gettare Netum e la sua storia nell’oblio per dar vita ad una città nuova che non conservò nulla della città che l’aveva preceduta. È naturale chiedersi se una Noto ricostruita sul monte Alveria avrebbe mantenuto i primati economici e politici che essa aveva conquistato, ma dirlo è impossibile. Difatti non si trattava solamente di ricostruire gli edifici distrutti, bensì l’intera vita sociale ed economica destabilizzata dal terremoto. In ogni caso, ciò che sappiamo per certo è che la città nuova, la città barocca, tali primati li perse, ma a questo punto è più appropriato dire che non li riprese.
Parte seconda
IL MARE… VISTO DA LONTANO
La seconda storia della città di Noto, la storia che inizia con la fine di Noto Antica e con la nascita della città barocca, sembra poggiare su un errore macroscopico ed irrimediabile: il mare.
Nel 1693 gli abitanti della Sicilia sono all’incirca un milione. Il 90 per cento sono contadini e piccoli artigiani, il clero rappresenta il 5 per cento, il rimanente 5 sono nobili feudatari. In altre parole, se escludiamo la Chiesa, un gruppo di 50 mila individui, insieme ai rappresentanti della Corona spagnola, possiede e governa tutta l’isola. La città di Noto poco prima del sisma conta circa 12 mila abitanti, 56 chiese, 19 conventi, un territorio vastissimo e una concentrazione eccezionale di famiglie nobiliari. Noto non ha certo l’importanza commerciale e politica di Siracusa o di Catania, ma è comunque, per quei tempi, per la Sicilia, una città popolosa, ricca e potente. Nel 1693, il baricentro del mondo si era già spostato dal Mediterraneo all’Atlantico solcato sempre più dai velieri inglesi e olandesi. Amsterdam è il centro economico e finanziario dell’Europa. Nel contesto dell’economia europea, la Sicilia, come gran parte dell’Italia, è già divenuta marginale. Il declino politico ed economico della Spagna in Europa era ormai certo: da lì a qualche anno, nel 1713, l’egemonia della potenza spagnola tramonterà definitivamente. In Sicilia, gli spagnoli lasciano il ricordo di un malgoverno assai mal sopportato dal popolo, alimentato a forza di privilegi feudali e fiscali elargiti ai signorotti dell’aristocrazia locale. Netum, nel 1693, era una città fortezza. Arroccata nell’entroterra siciliano, i suoi scambi commerciali erano quasi tutti interni alla Sicilia e non aveva alcuna esperienza marinaresca. La nuova dinamica economica che aveva preso piede nell’Europa del nord, lo sviluppo del credito, la diffusione delle Borse, l’affermarsi dell’economia mercantile, era in Sicilia semplicemente assente. A differenza delle classi dominanti inglesi, olandesi, tedesche o francesi, l’aristocrazia siciliana era in balìa della dominazione straniera di turno e non godeva di libertà di iniziativa economica. Prendere a prestito capitali da un’istituto di credito, acquistare o costruire una flotta per avviare un commercio con la Cina, l’India o le Americhe, cosa che nel nord Europa avveniva ormai quasi quotidianamente, era nella Sicilia dell’epoca inconcepibile. Nell’isola, come del resto in tutto il Meridione d’Italia, la borghesia mercantile non si sviluppò mai, la società rimaneva così nelle mani di due sole classi dominanti: la nobiltà feudale e il clero. L’esclusione del Meridione dall’economia di mercato e dal capitalismo che presero piede nell’Europa del nord durante il Seicento, gettando le basi della società moderna, avrà delle ripercussioni sociali irreversibili. Tale esclusione causerà infatti la marginalizzazione e il progressivo isolamento della società meridionale. Quanto al mare, nel 1693, esso non è certo un luogo di plaisance. Da quasi due secoli il Mar Mediterraneo è teatro di una guerra continua e spossante tra l’impero ottomano e quello spagnolo. Le coste siciliane sono esposte alle razzie, ai saccheggi, alle incursioni e alle scorrerie di turchi, pirati e corsari. A partire dal mese di maggio, regolarmente, flotte intere di galere di guerra battono e razziano le coste siciliane. Questo è il contesto in cui si trovano gli abitanti di Noto nel 1693.
Se Netum devastata dal terremoto avesse voluto darsi un avvenire diverso da quello poi conosciuto dalla città costruita sul Colle Meti, il mare sarebbe stata ovviamente la scelta più ovvia. Il progetto di una ricostruzione sul mare era senza dubbio il più impegnativo tra tutti, ma avrebbe potuto assicurare alla comunità netina dei benefici economici certi ed un futuro migliore. Per i netini, sopravvissuti al terremoto, spingersi fino al mare sarebbe stata una sfida esigente: costruire un porto, investire ingenti capitali, avviare rotte commerciali. Ma anche incerta: rivaleggiare con Siracusa, Trapani, Mazara, Messina, Catania, aprirsi, divenire vulnerabili. Una città sulla costa, dotata di un porto commerciale, avrebbe incontrato le resistenze e la competizione delle altre città marinare siciliane, ma avrebbe consentito di entrare in una dinamica economica più vantaggiosa e duratura, dinamica di cui hanno goduto le altre due città capovalli dell’isola, Messina e Mazara, ma anche tutte le altre città portuarie siciliane. La possibilità di “spostare” la città sulla costa era quindi l’occasione che il sisma, distruggendo Netum, offriva alla comunità netina mettendola sul piatto delle scelte possibili. La controversia che si aprì subito dopo il terremoto in merito all’ubicazione più adeguata per la ricostruzione della città fu molto lunga, confusa, animata e, per alcuni versi, anche violenta. Nell’ambito di tale controversia la possibilità di una ricostruzione sulla costa non fu ignorata. Anzi, furono formalmente avanzate diverse ipotesi: Vendicari, Eloro. Entrambe furono però presto abbandonate. Le ragioni che spiegano tale abbandono sono tante e svariate e tutte, per quell’epoca, convincenti. Sono ragioni politiche, economiche, militari, geologiche. Ma quella che forse ebbe maggior peso fu la ferma opposizione dei siracusani: un nuovo porto con pretese commerciali a pochi chilometri di distanza, una ricca capovalle trasferita sulla costa avrebbe semplicemente danneggiato la città di Siracusa. L’aspra opposizione dei siracusani trovò il facile accordo degli spagnoli, i quali, dal canto loro, considerati gli interessi della Corona, non avevano né la necessità e probabilmente neanche i mezzi per costruire e poi anche difendere un’ennesima città marinara in Sicilia. Una Noto portuale, talmente vicina a Siracusa, non poté che apparire come un’idea insensata sia agli spagnoli che all’aristocrazia netina.
Una rinuncia. Il primo atto significativo su cui si fonda la storia della nuova città di Noto, sebbene comprensibile sul piano delle ragioni pratiche, è quindi una rinuncia. Non un’azione positiva bensì un’astensione. Non possiamo allora escludere che il dubbio circa la perdita di un’occasione unica ed irripetibile dovette in ogni caso installarsi in seno alla comunità ed in particolar modo in seno alle classi dirigenti. Il dubbio di aver commesso un errore irrimediabile, il disagio per non essere stati lungimiranti, il rimorso plausibile per non aver difeso con maggior audacia l’idea del mare di fronte all’opposizione dei siracusani e degli spagnoli, trovarono verosimilmente un’occasione di riparazione nella realizzazione della città barocca. Una città nuova, non sul mare, sul colle Meti, senza porto, con un futuro improbabile, ma barocca, decisamente barocca. Il barocco, con il suo gusto per il frivolo, con la sua portata di aria nuova, di divertissement, la sua teatralità, le sue provocazioni, tornava allora utile come una bibita gassata in pieno sole d’agosto. Da un punto di vista strettamente simbolico, considerata nell’ambito di tutte le scelte possibili, non può che saltar agli occhi che la scelta del Colle Meti, esattamente a metà strada tra il Monte Alveria e il mare, rappresenta per l’appunto una scelta a metà. A metà tra il vecchio e il nuovo, a metà tra il passato, il Medioevo, la terra, la chiusura, le mura, e il futuro, il mare, l’aperto, i commerci. La nuova Noto sorgerà vicino al mare ma anche lontano dal mare. Vicino quanto basta per sapere che il mare esiste, che è o che è stato una possibilità, e lontano quanto basta per esserne al riparo o piuttosto deliberatamente esclusi. Esplorando ancor più le conseguenze dell’aspetto psicologico della rinuncia al mare, la costruzione della città in stile barocco sul colle Meti sembra operare per i netini un vero e proprio scambio simbolico: dinanzi all’occasione di costruire un nuovo luogo di vita certo più vulnerabile ma proiettato verso il futuro, i ceti dominanti si fermarono a metà strada, ripiegarono su una scelta meno rischiosa e, quasi a voler equilibrare l’opportunità mancata, puntarono invece sull’immagine esteriore della città, finendo così con lo scambiare il nuovo con lo stile architettonico all’epoca in voga, la modernità con il BAROCCO, l’utilità con l’effetto estetico, la costruzione di una città che avesse un futuro economico e politico duraturi nel tempo con la costruzione di un’opera d’arte alla moda. È allora una caso se oggi osserviamo che tale scambio simbolico tra l’utile e il bello, che ha inizio in una data storica precisa, il 1693, continua a perdurare nella vita pubblica della città? Una vita sociale, economica, politica e culturale che si contraddistingue per il continuo ripetersi di tale scambio primordiale, per la propensione alla ricerca dell’effetto piuttosto che dell’utilità, dell’aspetto esteriore piuttosto che della consistenza, del prestigio estetico piuttosto che di quello economico e politico, del corpo più che dell’anima o dell’intelletto.
DIO, IL MERCATO E LA PIAZZA CHE NON C’È
È possibile affermare che lo stile architettonico di una città, l’organizzazione degli spazi, l’ubicazione degli edifici, la loro destinazione, il loro uso, le ragioni che sottostanno alla loro costruzione possono influenzare la storia di una comunità, determinare in qualche modo il destino collettivo degli individui che la compongono?
Nel percorrere la città di Noto, ad un osservatore attento non sfuggirà una particolarità flagrante dell’impianto urbano: lo spazio dato a Dio è grandissimo, quello dato al mercato è piccolissimo, quello dato alla comunione degli abitanti è assente.
Lo spazio che i netini destinarono ai luoghi di culto nella città nuova è uno spazio immenso, persino sproporzionato rispetto al numero degli abitanti che l’avrebbero popolata. Il potere religioso del tempo approfittò dell’occasione data dalla costruzione di una città ex-novo al fine di prendervi, già nella fase di progettazione, uno spazio più che considerevole. Ma né gli architetti né gli abitanti dovettero trovare ingombrante una occupazione talmente vasta della superficie della città da parte del clero. Al contrario, la presenza di così tanti e diversi luoghi di devozione religiosa doveva invece apparire a tutti come di buon auspicio, utile tra l’altro a scongiurare il ripetersi di un evento devastante come il terremoto appena vissuto. Alla vastità della superficie occupata dal clero fa però contrasto in maniera eclatante lo spazio destinato nella nuova città al mercato. In qualunque civiltà, sotto qualunque latitudine, il luogo del mercato è il simbolo della ricchezza di una comunità. Se la banca custodisce ricchezze personali che, una volta messe sotto chiave, diventano per lo più sterili ed inaccessibili al resto della popolazione, il mercato è invece il luogo in cui la ricchezza circola, passa di mano in mano, si rigenera, può accrescersi beneficiando un gran numero di individui. La dimensione del mercato, la sua ubicazione, la sua forma sono degli aspetti decisivi per lo sviluppo economico di una comunità. Ora, nella Noto nuova, erede di una città come Netum, impegnata in un’attività produttiva e in scambi commerciali non irrilevanti nell’isola, tale ruolo vitale fu affidato dapprima allo spazio antistante la chiesa di San Domenico e successivamente alla loggia, o piazzetta, del mercato. Sembra incredibile, ma la piazzetta del mercato è ciò che i progettisti della Noto barocca concepirono per accogliere il simbolo della vitalità economica della nuova città. Uno spazio ridotto, contenuto, poco visibile, quasi nascosto. Perché la città barocca destinò al mercato uno spazio la cui dimensione è a dir poco ridicola? Fu un calcolo o una leggerezza progettuale? Certamente la gran parte delle transazioni commerciali si svolgevano direttamente nei feudi, quindi fuori città, ma perché gli architetti presero il rischio di confinare un simbolo strategico come quello del MERCATO, ciò che avrebbe dovuto essere uno dei cuori più palpitanti della città, in un luogo che, seppur armonioso ed elegante, era talmente esiguo ed improprio da fargli perdere il suo valore di emblema agli occhi della cittadinanza e persino delle altre città vicine? Nell’osservare l’esiguità della piazzetta del mercato, la sua timida collocazione, si ha l’impressione che gli architetti della Noto barocca nutrissero quasi dispregio per un’attività così necessaria ed irrinunciabile come quella produttiva e commerciale. Avevano dunque immaginato per la città non solo un’architettura ma anche un destino diverso da quello di Noto antica?
Ricorrendo di nuovo alla logica dei simboli, una risposta può emergere dal gioco delle proporzioni simmetriche. All’enormità dello spazio dato a Dio nella città barocca corrisponderebbe, logicamente, all’estremità opposta, l’esiguità dello spazio dato alle cose terrene. Se da un lato la presenza di Dio ad ogni angolo della città poteva tornare utile a scongiurare carestie e terremoti, dall’altro un’attività economica ridotta al minimo riduceva i rischi legati all’incombere di tali sciagure. Rischio di veder vanificati i propri sforzi, rischio di perdere d’un colpo il patrimonio investito in attività imprenditoriali e commerciali, rischio di ritrovarsi ancora una volta nella condizione di dover ricostruire ciò che la calamità distruggeva. In altre parole, il piccolo spazio del mercato sembra voler suggerire che esimendosi dal fare, o limitandosi allo stretto necessario, si può avere la sensazione di essere al riparo dalle vicissitudini della vita.
Ma se la sproporzione tra lo spazio religioso e quello economico risulta di difficile comprensione cosa dire allora dello spazio che manca?
Nell’impianto urbano della città di Noto la piazza principale è la piazza di San Nicolò, la piazza antistante la cattedrale. Nelle maggior parte delle città della Terra, la piazza centrale riveste numerose funzioni sia rappresentative che di aggregazione. La piazza principale è il luogo in cui gli abitanti hanno la possibilità di confluire, di riunirsi, di esprimersi e quindi di sentirsi cittadini, parte attiva della comunità. Ebbene gli abitanti della città nuova vennero stranamente privati di questo spazio simbolico. La piazza di San Nicolò è sì al centro della pianta urbana, ma la sua struttura è tale che riunirvi la popolazione è impossibile. Lo spazio della piazza è interamente preso a nord dalla scalinata della chiesa madre e a sud dal palazzo municipale. Se la piazza centrale di una città vuol avere la funzione di offrire alla cittadinanza la possibilità di aggregarsi nel suo luogo più rappresentativo, il centro appunto, allora la piazza San Nicolò risulta totalmente inadeguata, se non volutamente ostile a tale funzione. I cittadini riuniti, anziché godere di un piano esteso, si troverebbero disposti sui piani diversi della scalinata, chi in alto chi in basso, incastrati a distanza ridotta tra l’autorità ecclesiastica da un lato, imponente e sovrastante, e quella politica, a confronto più timida, ma comunque ingombrante, dall’altro. Certo la presenza di una piazza centrale consona all’aggregazione degli abitanti non è di per sé una condizione sufficiente a garantire una coscienza civile collettiva, ma è singolare constatare che a Noto tale spazio adeguato non fu realizzato né si è sviluppato nel tempo. Che dire? Se la città di Noto avesse goduto in questi ultimi due secoli di storia di uno sviluppo economico, se avesse mostrato una partecipazione responsabile e disinteressata di noi cittadini alla vita pubblica della città, se non avesse subìto l’invadenza di un cattolicesimo retrogrado, questa lettura correlata delle forme e dei fatti si smentirebbe da sola. Ma non è così! È allora una semplice coincidenza se i tre aspetti fondamentali della vita cittadina, l’economia, la religione, la coscienza civile, hanno avuto ed hanno tuttora, sfortunatamente, proprio le stesse proporzioni degli spazi architettonici corrispondenti nella pianta della città?
L’INIZIO È LA FINE
La seconda storia della città di Noto inizia nel 1693. E lì si ferma. Nel senso che da quella data la comunità netina vive – quasi esclusivamente – per realizzare il progetto di ricostruzione. Un progetto nel quale, vista la misura dell’opera che ne è conseguita, si dovettero concentrare, immobilizzandole, gran parte delle energie e delle risorse dell’epoca.
A determinare questo carattere di storia senza storia di questa seconda fase della vita della comunità netina contribuì il mescolarsi di alcune circostanze. Vediamole.
La ragione per cui si costruiva una città nuova non era quella di dare un luogoad una comunità che si doveva ancora costituire. Nel 1693, la comunità cittadina, con una lunga storia alle spalle, con i suoi ceti sociali ben caratterizzati, esisteva da tempo ed era già definita. Se a ciò aggiungiamo il fatalismo che ora si affermava tra gli abitanti come conseguenza del terremoto che in pochi attimi aveva raso al suolo Netum, possiamo immaginare che per molti netini ricostruire la città di Noto era una sorta di necessità assimilabile ad un’opera ultima. Compiuta l’opera, la storia poteva fermarsi, la trasformazione dei netini da attori in spettatori sarebbe allora stato un fatto piuttosto naturale.
Alla vigilia del sisma, Netum era sì una città prospera e potente, che godeva all’interno delle sue mura di una presenza considerevole tanto di istituzioni ecclesiastiche quanto di famiglie aristocratiche, ma per svariati motivi la sua importanza era assai inferiore al resto delle grandi città portuali siciliane. Se il clero vide chiaramente nell’opportunità che si presentava con la costruzione di una nuova città la possibilità di fare di Noto un importante centro di devozione, il ceto aristocratico, dal canto suo, era consapevole che la città nuova difficilmente avrebbe potuto rivaleggiare con l’influenza crescente della altre grandi città dell’isola. Il prestigio e l’influenza politica di Noto sarebbero quasi certamente declinate. Anche ciò lascia pensare come verosimile che la ricostruzione della città dovette essere percepita dagli abitanti come una sorta di ultima impresa.
L’opera di costruzione della città barocca durò all’incirca un secolo. Un tempo relativamente corto per la costruzione di una città, ma piuttosto lungo e deprimente se pensiamo da un lato alle incertezze circa il futuro politico ed economico che minacciavano gli abitanti e dall’altro al sentimento crescente di vanità e fatalismo che si affermava nella psicologia della comunità cittadina. Per tutti questi motivi, non è irragionevole pensare che il completamento dell’opera, il solo fatto di portare a termine il progetto di costruzione, sia stato concepito e vissuto dai netini comeLA STORIA, l’inizio e la fine insieme della città nuova.
Se la prima storia della città di Noto, la storia di Netum, è caduta nell’oblio, la seconda storia è, poste queste premesse, una storia brevissima. Dal 1693 fino alla seconda guerra mondiale la nuova città vive secondo uno schema feudale e classista ereditato da Noto antica e tipico del meridione d’Italia. La città ridivenne per qualche anno provincia, costruisce un teatro comunale e una stazione ferroviaria, ma in questa stessa fase della sua storia perde tutti i primati, economici, culturali, politici che Netum aveva saputo conquistare. Tali primati ovviamente non si volatilizzarono. Anche se in modo frammentato e quindi in maniera meno visibile, essi furono recuperati, oltre che da Siracusa, dalle città limitrofe come Modica, Avola, Pachino, città che oggi, ne raccolgono i frutti in termini di maggior sviluppo economico e culturale.
Parte Terza
IL SUD È A SUD
Il presente sarebbe pieno di ogni possibile avvenire, se già il passato non vi proiettasse una storia. Ma, ahimè! un unico passato propone un unico avvenire. André Gide, 1897.
Un terremoto catastrofico, la ricostruzione della città distrutta in un nuovo sito, la rinuncia al mare, l’influsso del barocco con la sua ossessione per l’effetto, le difficoltà e i mali propri al sud d’Europa alla fine dell’impero spagnolo, il gioco di potere della Chiesa cattolica e di un’aristocrazia fin troppo numerosa nella ricostruzione, non solo materiale, ma anche simbolica della nuova città, il peso delle conseguenze psicologiche della catastrofe e della riedificazione sui superstiti come sulle generazioni future, numerosi ingredienti, perché la città ricostruita divenisse quello che è oggi, una città museo, si erano riuniti in poco tempo. Ma se quello che sarebbe stato il destino della città nuova era in qualche modo tracciato già negli anni successivi al sisma del 1693, esso non poteva essere certo scontato. Se il futuro di Noto, ormai terminata sul Colle Meti, splendidamente barocca, nuova, moderna per quei tempi, era già compromesso dalla storia del suo dramma e dallo spirito della sua ricostruzione, un evento improbabile come l’unità d’Italia ebbe un effetto determinante. La scelleratezza e il cinismo con cui i governi d’Italia, di concerto con le peggiori anime del Sud, iniziarono a governare il Meridione, ne decretarono, in maniera profonda, il declino economico, l’isolamento culturale, la preclusione allo sviluppo, l’oblio, mali che non tardarono a tradursi nell’incuria, il degrado, la difficoltà per gli abitanti a immaginarsi e a costruire una coscienza civile comune.
Né mille pagine, né un milione basterebbero per cercare di dire. Centinaia di migliaia di vittime, città messe a fuoco, milioni di emigranti, e poi quest’idea che si impone secondo cui il Sud è quello che è, inferiore, non per delle ragioni comprensibili, ma perché, semplicemente, fatalmente, è a sud. Il Sud è a sud, geograficamente a sud, e questo basterebbe a spiegarne l’arretratezza, il sottosviluppo, la mancanza di strade, di ospedali che funzionino, di servizi pubblici, ma anche di fabbriche, di imprese, di lavoro.
La storia ufficiale, la storia che è rivelata nelle scuole del nostro Paese, ci dice che nel 1861 il Meridione era povero e arretrato, che i Borboni che lo governavano erano dei tiranni, che da anni già il Risorgimento anelava all’unità della penisola, che Garibaldi era l’eroe che fremeva per la costruzione dell’Italia, che i Savoia, grandi sovrani europei e progressisti, impietositi dalle condizioni dei loro fratelli meridionali, si lanciarono nell’impresa impossibile di liberare il Sud dalla sua triste sorte. Questa storia, tanto popolare, non riferisce però di aspetti decisamente offuscati: che nel 1861 il Sud era in Europa uno stato ricco e per certi aspetti anche moderno, che Casa Savoia era una dinastia destinata all’estinzione e economicamente disperata, che Garibaldi era un mercenario, che la preoccupazione del Risorgimento era più che altro quella di cercare nuove risorse e mercati per il Nord in difficoltà, che la spedizione dei Mille fu una sceneggiata, che senza l’aiuto dell’Inghilterra i Savoia non avrebbero mai potuto invadere il Sud, che nel Sud a migliaia si ribellarono e a migliaia furono uccisi, briganti! che il governo del Sud fu di fatto affidato alla mafia. La storia ufficiale non dice che subito dopo l’unità, la florida economia del Regno delle Due Sicilie fu smantellata, le fabbriche chiuse, le casse dei Borboni svuotate. La storia non dice che, dall’unità d’Italia fino al secondo dopoguerra, lo Stato italiano non investì un soldo nell’economia del Sud. Nel sostentamento sì, per calcolo, ma nell’economia e nello sviluppo no! Perché? Piazza Garibaldi, corso Vittorio Emanuele, via Cavour. Il Sud ne è pieno!
Se le dominazioni dell’isola, l’araba, la normanna, la spagnola, per citarne alcune, hanno tutte lasciato qualcosa nell’isola, qualcosa di cui oggi, nei mesi caldi, migliaia di visitatori ammirano le vestigia, è difficile dire cosa la dominazione sabauda e poi quella repubblicana hanno portato in dote ai siciliani. La coscienza democratica? L’indipendenza economica? Il progresso? Le industrie chimiche? Da qui, dal Sud, nel Sud, chi vuol vedere vede solo una modernità malata, l’affermazione della mafia come governo, lo spregio per l’ambiente, l’urbanizzazione selvaggia, un’economia basata sull’assistenzialismo e sul calcolo politico, la dipendenza dal Nord, l’esclusione dal progresso, l’assenza cronica di lavoro, la convinzione che i servizi pubblici siano delle elargizioni di favori da parte di questo o quel politico e, al di là dell’immaginabile, il sentimento che tutto ciò sia perfino normale, fondato, giusto, inesorabile, poiché anche qui, a sud, è divenuta ormai cosa certa: il Sud è quello che è, povero, arretrato, parassita, inaffidabile, ottuso, mafioso perché, disgraziatamente, esso è a sud.
Oggi, trecento anni dopo il terribile terremoto che distrusse Noto Antica facendo circa 3 mila vittime, la città ricostruita sul Colle Meti è invasa per sei mesi all’anno da migliaia di turisti. Una rinascita o la realizzazione di un destino che viene da lontano? L’UNESCO, l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura, nell’anno 2002, haiscritto i monumenti barocchi della città di Noto nella lista del patrimonio mondiale dell’umanità. Prima di questa data, ancora negli anni novanta, se un turista straniero si avventurava fino a qui, la notizia in mezz’ora aveva già fatto il giro della città: ana vistu ‘n tedescu, iàutu, iàutu, a’ Porta Rriali!
Ci sarebbe molto da dire sull’azione dell’Unesco, su questo passatempo infantile che consiste nell’eleggere un po’ dappertutto nel pianeta dei luoghi di villeggiatura. Come se il pianeta in cui viviamo non fosse tutto intero, con i suoi pregi e i suoi mali, con i suoi orrori e le sue meraviglie, PATRIMONIO dell’UMANITÀ, di questa umanità! Poiché le discariche abusive, le industrie chimiche sui litorali, le autostrade sui siti archeologici, le periferie mostruose intorno ai centri storici delle nostre città, ma di chi sarebbero patrimonio? Degli extra-terrestri ?
La città di Noto, oggi 25 mila abitanti, patrimonio dell’umanità, capitale mondiale del Barocco, dopo decenni di incuria, di immobilismo, di isolamento, ha ora il suo bel centro storico nuovamente tirato a lucido, ma ha anche, e da tanto tempo, una disoccupazione reale del 50%, una disoccupazione giovanile del 90%, pochissime attività culturali, una biblioteca museo senza utenti, una sola libreria e neanche un cinema, ma più di qualunque altra cosa, ha il futuro fragile di una città museo.
Vedere
Compiere un giro circolare, in senso antiorario. Partendo da sud per ritornare a sud. Lentamente osservare, guardare per vedere…
Compiere un giro circolare, in senso antiorario: la città di Noto contiene oggi più città. Da sud, una zona di guerra, si passa alla città detta “salotto buono”, al pianazzo, poi si scende di nuovo, altre zone di guerra.
Un turista che arriva oggi a Noto si trattiene nel “salotto buono”, la città barocca, un cannolo, un gelato, qualche scatto preso col telefono cellulare. Noto, la Noto barocca, suggestiva, ma il resto, la zona urbana che è intorno alla passeggiata barocca, tutto il resto della città, al turista non interessa. Il turista passa svelto, in autobus, non guarda. A qualche metro dal salotto buono è lo schifo tipico del Sud. A che serve quindi guardare? Strade rivoltate, buche grosse come impronte di dinosauro, marciapiedi divelti, sacchi di spazzatura esplosi, affissione pubblicitaria selvaggia, file d’auto parcheggiate sui marciapiedi, erbacce, il puzzo della fogna che a volte ti fa chiudere la bocca, infine, là dove non va mai nessuno, stranamente a sud, ricorda l’Iraq, Beirut bombardata, fuochi accesi nelle strade, un’altra città nella città… barocca.
Il “salotto buono”. Un’espressione che leggi persino nella stampa locale, mi colpisce per il cinismo che inconsapevolmente l’anima. Il “salotto buono”, ripulito e tirato a lucido, fa contrasto a tutto il resto. Eppure questa comunità urbana che al turista non interessa non è un errore, né una messa in scena. I netini l’abitano, i miei amici ci vivono, i miei familiari l’attraversano, i bambini ci crescono, ospita commerci, dimore, luoghi di ritrovo. Zone di guerra a due passi dalla città barocca. Tutti se ne lamentano, fatalità infame…
La lista dell’UNESCO è un danno per l’umanità. Pochi lo capiscono. Poiché l’ammissione di un luogo al World Heritage, là dove ciò è accaduto in contesti economicamente fragili, ha generato un processo di squilibrio economico e sociale. Focalizzando l’attenzione su UNA PARTE del tutto, sul “salotto buono”, la parte eletta, rimessa a lucido per i turisti, sterilizzata, se non muore, si sviluppa a scapito del tutto, a scapito delle zone urbane intorno ad essa, a scapito delle economie alternative al turismo di qualche ora. Grazie all’UNESCO, la parte nobile attira l’interesse e sviluppa frettolosamente un’economia folcloristica, va però in malora tutto il resto. Nonostante i danni già verificabili in Africa e in Asia, questo l’UNESCO non lo ha ancora capito.
Allora, la città può anche rimettere in sesto il suo centro storico, farne un “salotto buono”, indossare l’abito della domenica, ma che ne è del resto?
Ciao Stefano,se a Noto,non si rompe il modello sociale cattolico borghese consumistico,che ha la sua variante in un soggetto generico,senza nessuna qualità,così come vogliono i vari poteri,non penso che si possa cambiare la tendenza in questa Città barocca,da sbaroccare,come sosteni tu. Sarebbe necessario un Movimento di Opinione attivo,che prenda atto delle tue analisi e le sviluppi nel concreto …
Ciao Stefano,tu dici che Noto deve sbaroccarsi,ma se quì la classe politica che rappresenta la Città,è ancora identificata con il passato,con i Baroni,i Principi e i Duchi! Nell’Amministrazione Bonfanti,ci sono anche tre Consiglieri del PD,che non dicono nulla! Mi chiedo: Ma che ci stanno a fare? Io mi vergogno a vivere in questo luogo,ma soprattutto con questi Amministratori servili e politicamente qualunquisti!