QUANTO VALE UNA VITA UMANA di Stefano Feltri – Il Fatto Quotidiano
VERSO LA “FASE 2” Gli economisti stimano che ogni persona valga statisticamente 14,5 milioni (un anziano 9), numeri aridi che però dimostrano come il lockdown sia stato anche un ottimo investimento
Alcuni economisti attribuiscono un valore economico alla vita umana per valutare le politiche pubbliche sulla base di analisi costi-benefici. Questo è uno dei maggiori danni che la ‘scienza’ economica ha fatto alla nostra società”, ha scritto su Twitter Andrea Roventini, economista del Sant’Anna di Pisa, stimato dai Cinque Stelle e oggi membro della task force del governo che si occupa di dati e lotta al Coronavirus. Le parole di Roventini, come l’ultima copertina dell’Economist (“Un calcolo sinistro”) alludono a un dibattito in corso da settimane: la crisi del Covid-19 implica una scelta tra salvare le vite e salvare l’economia?
In realtà proprio la capacità degli economisti di dare un prezzo (o meglio: un valore monetario) alla vita umana dimostra che questo dilemma non esiste.
Chi continua a sollecitare immediate riaperture di fabbriche e attività economiche – da Matteo Renzi a Donald Trump – non ha fatto bene i conti.
In un famoso paper, Thomas J. Kniesner e W. Kip Viscusi, spiegano così il concetto di “valore statistico di una vita”: immaginiamo un gruppo di 10.000 lavoratori cui viene offerta la possibilità di guadagnare 1.000 euro al mese ciascuno in più se accettano di svolgere una mansione pericolosa che ogni anno farà morire un lavoratore in più rispetto alle mansioni tradizionali. Il gruppo di 10.000 lavoratori avrà, nel complesso, un reddito annuo di 10 milioni di euro più alto, ma uno di loro morirà ogni anno. Vi sembra inumano? Eppure accettiamo questi compromessi ogni giorno, basta leggere qualunque contratto collettivo nazionale: al personale tecnico sanitario di radiologia medica, per esempio, spetta una indennità “rischio radiazioni” di 1.239,50 euro (lordi) all’anno.
Quindi si può dare un valore monetario alla vita umana, lo fanno le assicurazioni, ma lo fanno anche i governi e noi cittadini lo accettiamo senza problemi: se il limite di velocità delle auto fosse 30 chilometri all’ora anche in autostrada, salveremmo gran parte dei 3.300 italiani che muoiono ogni anno negli incidenti. Ma accettiamo un certo numero di vittime per arrivare più in fretta a destinazione.
Applicare questi approcci nel mondo del Coronavirus porta a giustificare il lockdown, non a chiedere di tenere aperte le fabbriche.
Il “valore statistico di una vita” negli Stati Uniti è considerato di solito pari a 14,5 milioni di dollari. Luigi Zingales, economista dell’Università di Chicago, ha fatto il seguente calcolo in un recente articolo di ProMarket.org: ipotizziamo 200 milioni di contagiati negli Stati Uniti durante tutta l’epidemia, il 5 per cento finisce in terapia intensiva, uno su cinque di questi muore, più o meno le percentuali osservate in Cina. Ma quando finiscono le unità di terapia intensiva perché il contagio avanza troppo rapido e non ci sono ventilatori per tutti, nove pazienti gravi su dieci muoiono. La differenza tra i due scenari applicati è che nel primo ci sono 1,8 milioni di morti, nel secondo 9. Quindi, evitare l’affollamento degli ospedali può salvare 7,2 milioni di vite umane.
Chi fa questi calcoli tutti i giorni, come l’Agenzia federale per l’ambiente (Epa), applica un tasso di sconto per l’età che riduce il valore monetario statistico della vita degli anziani del 37 per cento. Anche dopo questo impietoso “sconto”, osserva Zingales, non ci sono argomenti economici per accettare che il contagio si diffonda, facendo più vittime di quante ce ne sono tenendo tutti chiusi in casa: se invece di 14,5 milioni per vita umana consideriamo 9 milioni (il 37 per cento in meno) e moltiplichiamo per 7,2 milioni di persone salvate, si ottiene un “valore” complessivo di 65.000 miliardi di dollari. “Anche la più semplice delle analisi costi-benefici suggerisce che il governo americano dovrebbe spendere fino a 65.000 miliardi per evitare quelle morti in eccesso”, scrive Zingales. Per dare un’idea: 65.000 miliardi è il Pil che gli Stati Uniti producono in tre anni.
Michael Greenstone e Vishan Nigam, sempre dell’Università di Chicago, in un paper appena pubblicato stimano che il distanziamento sociale negli Stati Uniti possa salvare 1,7 milioni di persone per un controvalore di 7.900 miliardi. Il beneficio economico, pari comunque al 40 per cento del Pil americano, è minore perché Greenstone e Nigam valutano la vita di un over-70 soltanto 3,7 milioni di dollari. L’approccio che scelgono è quello ideato da Kevin Murphy e Robert Topel che considera il valore monetario di una vita in termini di quanto la persona potrà consumare prima di morire. Anche con questo arido calcolo, salvare vite in questo momento è un ottimo affare.
Sarebbe sbagliato concludere però che allora conviene tenere l’economia ferma fino a quando il virus non sarà completamente debellato. La conseguenza dell’analisi costi-benefici è che, se il contagio continuerà a rallentare, a un certo punto i benefici di riaprire fabbriche, aeroporti e stadi saranno maggiori dei rischi che questo comporta (misurati in termini di morti). Anche perché pure il Pil serve a combattere il virus, come ha fatto notare Paul Romer, economista premio Nobel: se in troppi inizieranno a soffrire per il blocco dell’economia, ci saranno proteste, manifestazioni, assembramenti che faranno ripartire il contagio e alla fine avremo sia i morti sia la depressione economica. La tenuta dell’Italia è stata messa a dura prova dalla recessione del 2009, quando il Pil e sceso del 6,6 per cento in un anno. Secondo l’ultima stima di Unicredit, nel 2020 il Pil potrebbe segnare -15, con conseguenze sociali imprevedibili.
È una scelta delicata stabilire quando e quanto e cosa riaprire nella “fase 2”. Molti economisti, a cominciare da Romer, hanno avanzato idee su come proteggere le persone nella transizione: tenere gli anziani in casa, testare ripetutamente chi ha contatti col pubblico (a cominciare dai medici) e isolare i positivi. Più test si fanno, più rallenta il contagio, e se i test si fanno alle categorie più a rischio, a parità di tamponi si troveranno molti più contagiati, quindi l’efficacia della misura sarà massima.
Le alternative all’analisi costi-benefici sono tutte peggiori, perché basate non sui numeri, ma sull’ideologia o su scadenze arbitrarie che al virus interessano ben poco (Matteo Renzi aveva detto “riapriamo le fabbriche prima di Pasqua”). Si tratta di decisioni che non spettano più soltanto ai virologi, ma alla politica che dovrà anche spiegare su quali basi le prende. I numeri sono forse aridi, ma le decisioni prese senza considerarli sono le più pericolose.
Stefano Feltri, Il Fatto Quotidiano