Mi trovo qui, per una cortesia ad un collega di National Geographic. Essendo lui ritornato in Europa, da Città del Messico in cui ci trovavamo, per motivi personali che non ho neanche voluto approfondire, in nome di una vecchia amicizia che in verità è stata praticata unilateralmente solo da parte mia, mi ha chiesto di sostituirlo ed andare a fare un – penso noiosissimo – reportage su una particolare festa che si tiene annualmente presso la ridente cittadella di San Miguel de Allende, l’antica città di Itzcuinapan, nello stato di Guanajuato, con circa 60 mila abitanti a più di 1.900 metri di altezza. Una cittadella ammessa nel 2008, al World Heritage List dell’UNESCO – Patrimonio de la Humanidad come la si definisce da queste parti – per i pregevoli esempi di arte e di architettura barocca messicana, soprattutto religiosa, risalente al XVIII secolo ed evolutasi, in alcuni casi nel tardo XIX secolo, in stile neogotico.
A cavallo tra fine settembre e i primi di ottobre, si presentano vari eventi, tra i quali quello per cui sono dovuto venire qui: la celebrazione dell’arrivo degli indiani del Messico che sfilano ornati con Xùchiles (o chimales), offerte propiziatorie a San Miguel Arcàngel in forma di decorazioni fatte con fiori, piante e pasta di mais e l’esposizione di Xìchiles, enormi cornici di bambù sulle quali sono montate composizioni floreali fatte di fronde di cactus e calendule.
Mi mescolo tra la folla ai margini della parata e inizio a fare il mio dovere di fotografo. E’ un piacere indescrivibile impugnare la mia nuova Nikon D4s. I colori di certo non mancano. Gente povera, a migliaia, molti in costume con copricapo fatti di lunghe penne variopinte, altri con bandiere e vessilli di tutti tipi, religiosi in processione, officiatori di riti propiziatori per l’agricoltura, danzatori e suonatori tribali, personaggi carnascialeschi, tutti mescolati in un’unica parata. Si ha la netta impressione che le tradizionali manifestazioni siano state irrimediabilmente contaminate da “geniali” trovate a uso e consumo di superficiali turisti. Così si vedono danze un po’ troppo dal sapore brasileiro e sfilano tutti: majorette di tutti i tipi e persino giocatori di football americano, anche i “bomberos”, i pompieri in salsa spagnola.
Dopo alcune ore arrivo infine nella Plaza Principal, nel centro di San Miguel, in cui, come spesso avviene, si fronteggiano il potere temporale, con il palazzo della Presidencia Municipal – l’Oficina de Desarollo Social y Humano – e il potere ecclesiastico, con la sua Catedral, la Parroquìa San Miguel Arcàngel. Solo che stavolta, nel mezzo tra i due, dove con tutta probabilità una volta c’era una vera piazza come Dio comanda, oggi troviamo un giardinetto pubblico, il Jardin Allende, con tanto di aiuole e alberi ben potati, panchine e vialetti.
Anche la Plaza Principal è animata dalla festa, per cui, lasciandomi alle spalle la Catedral, inizio a fare il giro dei giardinetti e vedo che le due strade laterali sono occupate da bancarelle e stand dimostrativi tra i quali spiccano da un lato quello della Guardia Nacional Mexicana che affianca l’Esercito regolare e, dall’altro, quello della Policia Federal. Presumo che servano a promuovere l’immagine dei due corpi ed anche ad invogliare i giovani a far domanda di arruolamento. Entro nei giardini e in uno slargo vedo gente chinata a terra che armeggia, con cosa? Mi avvicino di più e mi rendo conto che il gruppetto di giovani che si dà da fare, sta completando a terra una grande figura di aquila utilizzando petali colorati e una specie di terriccio che, poi mi spiegheranno, non è altro che tufo di caffè. La cosa che più mi sorprende è che i giovani armeggiatori di petali, parlano inequivocabilmente in italiano e, più precisamente, mi pare di riconoscervi un’inflessione dialettale meridionale. Non posso fare a meno di avvicinarmi ed individuato quello che, a naso, mi sembra uno dei capi comitiva, lo punto e gli chiedo senza esitazioni se sono veramente italiani e per quale misterioso motivo si trovano sull’altopiano messicano.
“Siamo qui per un gemellaggio tra la nostra città, Vigata, e San Miguel de Allende. Entrambe utilizzano i fiori come mezzo espressivo nelle occasioni di festa, per cui abbiamo deciso di mandare qui i nostri maestri infioratori, per uno scambio di esperienze e …”. Lo interrompo, tanto so che sta per dirmi qualcosa che ha a che fare con “occasione di arricchimento culturale“, “promozione turistica” e menate del genere e lo incalzo chiedendogli se davvero pensa che una “infiorata” – così come la chiamano in gergo – in mezzo ai giardinetti di San Miguel, possa servire a promuovere alcunchè. Il capocomitiva mi risponde con un sorriso sornione e tanto mi basta. Rinuncio a chiedere chi sia stato a finanziare la gita transoceanica, tanto sono già sicuro della risposta.
I ragazzi vigatesi, in verità, sembrano veramente convinti di assumere una sorta di ruolo di ambasciatori di tradizioni culturali, molto meno i capocomitiva. Mi seggo con loro a dei tavolini da bar che riempiono i vialetti e che sembrano troppo invasivi rispetto alla destinazione pubblica dei giardinetti. Ma il notabile vigatese in trasferta, mi spiega di aver inteso che l’anarchico tripudio di tavolini, poltroncine e ombrelloni che ci circonda, sono annessi al bar sotto i portici sul lato est della plaza, appartenente ad un familiare di un noto trafficante locale, “El H”, recentemente catturato. Anzi, il vigatese, rincara la dose, dicendomi : “D’altro canto qui siamo nel centro del Messico, mica in Europa. Dalle nostre parti, ne converrai, per fortuna cose come queste non ne possono succedere. Poi oggi, addirittura nella stessa piazza, gomito a gomito troviamo tutti i poteri che contano: chiesa, amministrazione pubblica, esercito, polizia e “amici degli amici”, e la folla dei cittadini in mezzo indifferente. In linea, scherzo ma non tanto, con i nuovi criteri per il calcolo dei PIL nazionali, in cui sono ormai incluse le entrate per droga e prostituzione. Ognuno sembra stare al posto suo, nel ruolo che la società gli ha assegnato, senza sconfinare, senza turbare delicati equilibri. …”.
Poiché mi sembra di ravvisare tra queste parole un po’ della solita spocchia occidentale, anzi europea, nei confronti della presunta arretratezza culturale del resto del mondo, lo interrompo di nuovo. “Ma, non vorrei scadere nei soliti luoghi comuni, ma non è che da voi in Sicilia ve la passiate tanto meglio rispetto a quanto da lei or ora stigmatizzato, non so a Vigata, ma mi risulta che ancora da voi i santi trasportati a spalla nelle processioni fanno gli “inchini” dinanzi alle case dei boss locali. O sbaglio?“.
Vedo il mio interlocutore cambiare espressione stizzito. “Sì, lei sarà magari uno che per mestiere gira il mondo, ma di certi stereotipi sui meridionali, da buon settentrionale, constato che è veramente dura liberarsi. Io parlo per Vigata. Da noi le regole valgono per tutti, senza esclusione per amici e amici degli amici, nessuna eccezione. Come si potrebbe chiedere di rispettarle a qualcuno se altri palesemente le violano senza alcuna conseguenza? Davvero lei pensa che tutto il mondo è paese?“
Confesso di essere rimasto mortificato, mi sono sentito come la buonanima di mio nonno quando, da piccolo, mi raccomandava che durante il servizio di leva, avrei dovuto accuratamente evitare i “terun”, così, come indiscutibile regola di vita. Possibile che decine di anni all’estero non mi abbiano ancora sprovincializzato? Con un fondo di senso di colpa allora cerco di recuperare e gli offro qualcosa di dissetante. Il vigatese, però, coglie l’occasione per assestare l’ultimo colpo al mio malandato orgoglio e mi risponde: “Senta, accetto con piacere, ma non contribuirò mai a far intascare un “peso” al proprietario di questo esercizio. Andiamo da quello dell’altro lato della piazza e, se permette, offro io…. Sa, noi a Vigata siamo fatti così.”
A quel punto meritava davvero tutta una foto con la mia fida D4s. A chi dovesse interessare, può trovarla ancora nell’album del mio profilo FB, tra i miei ricordi più cari.
Montalban