La civiltà, come noi la conosciamo, è nata con l’agricoltura. Le tribù dei cacciatori nomadi non avevano un’idea precisa del tempo. Cacciavano, consumavano – dato che non si poteva conservare – e tornavano a cacciare. L’irrompere dell’agricoltura ha portato la concezione della circolarità del tempo…., (Susanna Tamaro)
Chiarisco subito, a scanso di equivoci, che questo intervento, da almeno un anno in pectore, non ha lo scopo di alimentare il fuoco delle polemiche, già di per sé molto “hot”, ma – al contrario – è da intendersi come un suggerimento verso un cambio di prospettiva connesso intimamente con i tempi e la concretezza indispensabili, ormai credo ineluttabilmente, alla comunità netina.
Non me ne vogliano pertanto, parti in causa, supporters o claque se, di tanto in tanto, le parole potranno sembrare taglienti; Se lo sembreranno sarà solo per dare maggiore coerenza e forza alle argomentazioni.
Per la lunghezza delle argomentazioni è necessario, per non annoiare mortalmente l’incauto lettore, dividere almeno in due parti la trattazione di questo tema.
Carmelo Filingeri
I° parte – tratto da “Alle radici della parola “Cultura”
Massimo Angelini
ALLE RADICI DELLA PAROLA “CULTURA”
Una parola che oggi si presenta ambigua, dai contorni incerti, usata per molti significati non sempre tra loro coerenti. È normale così: ci sono parole che nascono ed evolvono con significati densi di valori orientativi; poi, nel tempo, la loro fortuna ne estende l’uso e fatalmente il loro significato si diluisce e sfuma nell’allusione.
Come restituire un senso meno ambiguo, più certo, orientativo, a “cultura”?
Se la natura delle cose riposa nel profondo delle parole che le esprimono, potrebbe essere utile provare a recuperare la radice di quella parola attraverso una regressione etimologica che ce ne racconti l’origine.
Come numerose parole che condividono la stessa desinenza, come “ventura”, “futuro”, “nascituro”, “jattura”, come la stessa parola “natura”, così “cultura” deriva da un participio futuro, forma usata in latino ma ignota alla nostra lingua.
Il participio futuro indica ciò che è per essere, che è imminente, che non è ancora eppure già partecipa dell’essere, indica ciò che è prossimo e già se ne intravede l’abbozzo, la traccia, il segno.
L’albero è il “participio futuro” del seme dal quale prenderà vita e forma. La casa terminata è il “participio futuro” delle fondamenta da poco gettate. Ogni realizzazione è il “participio futuro” del suo progetto appena steso.
La matrice che genera la parola “cultura” è un verbo latino, còlere, che significa innanzitutto coltivare, anche nel senso figurato di avere cura, trattare con attenzione o con riguardo, quindi onorare; per estensione, già che per coltivare bisogna stare in un luogo e perciò avere una qualche forma di stanzialità, significa anche abitare.
Dal nominativo neutro plurale di colturus, participio futuro di còlere, nasce la parola cultura.
Il participio futuro ha comunemente un valore finale e un significato attivo.
Dunque, come “ventura” si riferisce a ciò che sta per accadere, e “nascituro” a chi sta per nascere, così sono cultura le cose prossime alla coltivazione, a fare crescere, a onorare.
È cultura ciò che porta a questo – avere cura, fare crescere, onorare – e a farne oggetto di realizzazione.
È un valore assoluto che sottende una spinta verso l’alto (fare crescere) e, com’è proprio del culto, mette in contatto i piani dell’essere ed eleva alla conoscenza di ciò che sta sopra, di ciò che sta oltre.
La cultura, dunque, riguarda le cose prossime a fare crescere, a elevare; anche se oggi non riusciamo più a usare la parola in senso assoluto ma solo in relazione a qualcosa: si parla di una “cultura del”, come quando si dice “cultura dell’arte orafa”, “cultura del socialismo”, “cultura urbana” …
Ma il recupero del significato originario della parola ci mostra che, quando la decliniamo attraverso una specificazione della quale diventa sostegno, si smarrisce il suo valore assoluto e così essa deraglia dalla sua radice profonda.
Allora, di fatto, chiamiamo cultura quella che è civilizzazione,o ne facciamo un deposito di conoscenze, consuetudini e valori propri di un gruppo sociale o di un contesto epocale o territoriale, aprendo la strada alla nozione plurale di “culture”, diluendo il significato originario in una fenomenologia priva di contorni.
La cultura non va confusa con quell’erudizione che ha il proprio fine in sé stessa, nell’accumulazione dei dati, nella loro ostentazione sociale o accademica, ed è espressione di collezionismo delle informazioni, guscio di un sapere ridotto alla sua apparenza, gioco di riconoscimento tra i sodali di una conventicola.
La cultura tende ponti fra le persone e tra i mondi; non si occupa di cose inutili, di inezie senza anima, non gioca allo specchio, perché, nata da un verbo attivo, trova il suo compimento in cosa o in chi ne è destinatario.
Chi parla per non farsi capire, chi inutilmente complica ciò che è semplice (ma anche chi banalizza ciò che è complesso), chi astrae ciò che è concreto, chi consapevolmente usa le proprie conoscenze e le parole per segnare le distanze, per distinguersi, per sottomettere, invece che per condividere e comunicare, non coltiva nulla ma genera deserto, non fa crescere ma inaridisce, non rende onore che al proprio io di narciso infelice, e non produce cultura ma, distaccandosi dall’umanità, genera il proprio isolamento.
Recuperato il valore originario della parola, possiamo notare che essere stati sottoposti a un lungo ammaestramento scolastico, disporre di un ricco vocabolario, memorizzare nomi e citazioni, conoscere una grande quantità di nozioni, tutto questo di per sé non ha a che fare con la cultura.
Nella civiltà dello spettacolo, la parola cultura è usata a sproposito ed è trattata quasi come sinonimo di intrattenimento, spettacolo e occupazione del tempo libero.
In alcuni quotidiani la pagina della cultura è diventata, nei fatti, quella degli spettacoli, delle manifestazioni e del folklore.
Lo si osserva quando gli “assessorati alla cultura” esprimono il loro impegno nell’organizzazione di sagre intrattenimenti, “notti bianche”, nella spettacolarizzazione dei luoghi e delle comunità.
Cosa si fa crescere così, cosa si eleva, cosa si onora?
La cultura è ormai una gran macchina congegnata per l’ostentazione o il profitto, per l’aggiornamento o la frode, ma soprattutto per la distrazione o per il gioco d’azzardo dei guadagni dell’industria culturale.
La confusione di cultura e intrattenimento accompagna lo svuotamento della parola e va di pari passo con la confusione che domina lo spazio della creatività, dove ogni ghirigoro, ogni pennellata e ogni segno puerile sono proclamati arte, ogni rumore musica, ogni lallazione poesia e ogni scritto letteratura.
In questo tempo serve cultura, quella che prende cura, che eleva, che aiuta ad allinearsi con l’ordine magistrale delle cose, che serve a ricomporre un cosmo deflagrato nella relatività e nell’indifferenza (nascosta sotto la maschera della tolleranza), come è nell’intimo della sua natura e come, attraverso lo scavo etimologico, la radice della parola che la dice ci rivela.
Fine I° parte
Continua ……
.”…Chi parla per non farsi capire, chi inutilmente complica ciò che è semplice (ma anche chi banalizza ciò che è complesso), chi astrae ciò che è concreto, chi consapevolmente usa le proprie conoscenze e le parole per segnare le distanze, per distinguersi, per sottomettere, invece che per condividere e comunicare, non coltiva nulla ma genera deserto, non fa crescere ma inaridisce, non rende onore che al proprio io di narciso infelice, e non produce cultura ma, distaccandosi dall’umanità, genera il proprio isolamento…”
Questo è un passaggio che dovrebbe fare riflettere tutti…ma proprio tutti!
La penso esattamente così anche io!
Ciao Carmelo. Non capisco bene la frase “verso un cambio di prospettiva connesso intimamente con i tempi e la concretezza indispensabili, ormai credo ineluttabilmente, alla comunità netina.”
Cosa vuol dire esattamente ?
Caro Stefano questa prima parte di un ragionamento complessivo serve per ben delineare i contorni di cosa si intende quando si usa la parola cultura. Per una città come la nostra, in piena crisi economica e sociale, una delle soluzioni passa, a mio parere, attraverso un cambio di prospettiva e interpretazione del ruolo di istituzionale legato alla cultura e alla legalità attraverso azioni concrete che non lascino indietro nessuno, in particolare, con quelli con cui abbiamo difficoltà a interloquire, esclusi per conoscenza, censo e conventicoli.
“Come è proprio dell’agricoltura, la cultura richiede un rapporto con il tempo e con la concretezza, ma oggi il venire meno del suo valore profondo, che si accompagna al progressivo abbandono dei campi, lascia spazio a un nuovo tribalismo, fatto di frammentazione, occasionalità e di una sostanziale perdita del senso del tempo e della comunità.”
“Il tempo è breve, la mia casa è piccola, la mia vita è breve, e la mia misura è quella dellʹuomo. Senza amarezza e senza ira, ubbidendo semplicemente alle esigenze della vita e della mia responsabilità verso la vita, io volto le spalle alla vita intesa come puro divertimento e vivo come ritengo giusto” (Florenskij)
A presto
Carmelo Filingeri