L’occasione ghiotta delle discussioni sul P.R.G., questa urbanistica tela di Penelope in perenne fase iniziale (anche perché già al secondo Ulisse), mi permette di uscire un po’ dai soliti argomenti contingenti di politica locale, per sottoporre all’attenzione del lettore alcune mie semplici riflessioni su un argomento che a Noto sembra bandito dai dibattiti, dalle analisi e da qualsiasi seria programmazione (persino dai velleitari e improbabili programmi elettorali), in pratica sistematicamente rimosso dalla coscienza collettiva di questa cittadina e, soprattutto, di quella degli amministratori e di chi si pone l’ambizioso obiettivo di sostituirli.
I “caminanti” residenti a Noto….
Sono sicuro dell’imbarazzo, più o meno inconfessato, che in questo momento sta assalendo il lettore (se questo si può considerare un medio “netino”), insieme ad una sfilza non indifferente di luoghi comuni. Ma è proprio nell’affrontare questi problemi che ci toccano così da vicino che otteniamo la reale misura del nostro livello di apertura mentale e dell’effettiva sensibilità che ci anima nei confronti delle tematiche sociali.
Un gravoso cimento per le nostre coscienze, quasi quanto quello di alcuni padri che conosco, i quali, dopo avere professato da sempre le loro larghissime vedute sulle problematiche educative dei figli, messi finalmente alla prova dai normali problemi delle loro neoadolescenti “figlie femmine”, si sono trasformati in impacciati arcaici patriarchi con tanto di logoranti pedinamenti e di circospette, quanto clandestine, perquisizioni degli zaini scolastici.
Dato che queste riflessioni prendono le mosse da una ottica centrosinistriana, occorre subito confinare ed eliminare prontamente, qualsiasi atteggiamento e presa di posizione preconcetta e superficiale, in modo da allontanare dalla nostra analisi possibili derive settarie, o peggio, di vago sapore segregazionista. Perché già, come meccanismo mentale tacitamente acquisito, esistiamo “noi” e “loro”: “loro” non sono netini e non si vede come possano essere considerati tali.
Nei circa cinquant’anni di coabitazione e di stabilizzazione di questa “presenza” a Noto, territorialmente ben circoscritta, si sono evidenziate alcune “loro” indubbie peculiarità. E’ interessante, infatti, centralizzare la nostra attenzione non sulle debolezze ed i difetti che, anche se in diversa misura, accomunano “noi” e “loro”, bensì sulle “loro” specifiche caratteristiche che, in un certo senso, fanno “sistema”, cioè possono essere considerate essenziali e riconoscibili al fine di definire la “loro” identità di gruppo socialmente distinto e rilevante.
Ovviamente il mio approccio al problema non ha alcuna pretesa di essere scientifico, ma frutto (questo sì), di ragionate considerazioni condite di sano realismo e il più possibile mondate dalle ipocrisie che incombono quanto si vuole essere a tutti i costi “politically correct”.
Lascio a chi si può piccare di avere erudite conoscenze di antropologia e sociologia, l’arduo compito di analizzare più a fondo la tematica, perdonandomi per ora per le inevitabili ingenuità che incontrerà nella esposizione delle mie opinioni. Addentrandomi nella ricerca di analogie chiarificatrici, in grado di suggerire la giusta chiave di lettura, mi rendo sempre più conto che ci troviamo di fronte ad un problema del tutto particolare.
Non è possibile fare parallelismi con i contesti sociali che caratterizzano le periferie delle medie e grosse città; lì, infatti, gli agenti “differenzianti” sono costituiti da un misto di sottocultura dell’illegalità, di frustrazioni e di disagio economico; ma tutto, a mio avviso, in relazione e paragonato all’altra parte della società che può apparire banalmente “per bene”.
Per questo, i tentativi tesi ad elevare il generale livello culturale e ad imporre con accortezza l’emulazione del modello etico e sociale predominante, non possono che promuovere l’auspicata integrazione sociale.
Non è neanche possibile fare analogie con i quartieri di alcune grandi (e ormai anche piccole) città, occupate da prevalenti etnie di immigrati che, pur mantenendo tenacemente le tradizioni ed i costumi dei paesi di origine, sono innegabilmente orientati al conseguimento di una stabile condizione di benessere economico, che rende sempre fondamentale il confronto ed il raggiungimento di un ragionevole compromesso con il modello etico e sociale, economicamente predominante. Anche qui, con le dovute attenzioni alle diversità, è raggiungibile (almeno teorizzabile) un accettabile livello di coesistenza e di integrazione sociale.
Nè è possibile fare un utile parallelismo con le comunità Rom (gli zingari veri e propri), perché queste appaiono sostanzialmente incapaci (forse non interessate) al raggiungimento di un livello generale economico in grado di affrancarle da una vita spesa nelle roulotte o in baracche fatiscenti. Questa importante elemento distintivo, come ben sappiamo, non è per niente riconducibile alla comunità dei “caminanti”. Proprio in questi giorni, su “La Repubblica”, ha luogo un acceso dibattito che prende le mosse dallo sfogo di un lettore che, in buona sostanza, in una lettera a Corrado Augias, afferma: “sono di sinistra, ma a causa della legalità trascurata, sto diventando razzista”. Certo, l’accoppiata “di sinistra” e “razzista” è veramente stridente, come un PD che vota un sindaco di destra, come un no-triv che, senza alcuna effettiva utilità, fa il gioco di un sindaco di destra, pur sospettando (almeno lo spero) che a quest’Ultimo, in effetti, non gliene importi più di tanto.
Ma invece di sollevarsi da sinistra il coro di ipocrite disapprovazioni, da titolati sindaci, delle grandi città italiane, viene affermato il sacrosanto principio che la legalità è un diritto (oltre che un dovere) e chi la auspica, o la garantisce, sta dalla parte dei deboli. In altre parole non bisogna confondere la tolleranza con il permissivismo e l’impunità, altrimenti si offre alla destra il monopolio di essere gli unici ad avere a cuore la sicurezza dei cittadini “per bene”.
E questo non paga né eticamente, né tanto meno (dato l’andazzo europeo) elettoralmente.
Ad ogni buon conto, occorre segnalare che a Noto, indistintamente a destra che a sinistra, in modo del tutto bipartisan, non si è mai vista una vera sensibilità contro le illegalità di un certo peso, vuoi perché i voti, come i soldi, non puzzano; vuoi perché tutti abbiamo una macchina, per cui magari paghiamo ancora le rate, e ci procurerebbe un certo disappunto vederla consumare come effimero oggetto luminoso nella notte netina.
Certo, in questi giorni assistiamo ad un fiorire di interventi di esponenti politici locali colti da sussulti di tensione etica ed ideologica e di amore per la legalità; sono però sicuro che, sul campo, nessuno di loro (per comprensibilissimi motivi, per carità) sarebbe disposto a calarsi in trincea.
Sciagurato è quel paese che ha bisogno di eroi …
Più mi addentro nel problema, più mi convinco che per “loro” siamo “noi” il problema. “Loro”, infatti, posseggono un loro sistema autonomo di tradizioni e di costumi ed una struttura sociale gerarchizzata ben definita e collaudata.
I “loro” problemi, materia del “nostro” codice civile, fin quando non assumono una evidenza ai sensi del “nostro” codice penale, vengono risolti all’interno della stessa comunità.
Per “loro” il concetto comune di libertà secondo cui quella di ognuno finisce dove inizia quella degli altri, all’interno del “loro” territorio e secondo le “loro” regole, è perfettamente rispettato.
L’unica grossa pecca è nel “loro” concetto di “res publica”.
Le uniche vere difficoltà derivano, infatti, dalle “incomprensioni” che nascono dall’applicazione del “nostro” sistema di regole nei campi sociale, economico, fiscale, urbanistico, assistenziale e sanitario, con cui devono fare i conti periodicamente ed inevitabilmente per il “loro” sostentamento.
In questi giorni, sempre a proposito di P.R.G. condiviso, qualcuno invoca l’attiva partecipazione dei cittadini, mediante l’audizione di opportune delegazioni rappresentative degli interessi comuni di parti del nostro territorio.
Immaginiamo quindi la legittima partecipazione di una delegazione dei quartieri a quasi esclusiva presenza di “caminanti”.
Dopo avere constatato, se ancora fosse necessario, le sostanziali differenti visioni sul modello di sviluppo della zona, caratterizzato da un pluridecennale spontaneo autodeterminismo urbanistico (tutto sommato un riuscito esperimento ante-litteram di micro-federalismo), i rappresentanti delle istituzioni si troverebbero di fronte a tre alternative: la prima è di applicare le norme così come sono vigenti nella nostra Regione e quindi dare luogo a fastidiosi ed imbarazzanti procedimenti sanzionatori o peggio.
La seconda, più realista del re, è quella di abdicare alle normali proprie funzioni di prevenzione, regolamentazione e controllo, trovando degli opportuni escamotage giuridico-tecnici (se praticabili) tali da creare una specie di grande condono locale, una sorta di istituzionalizzato “scurdammene o’passato” (nel medesimo discutibile stile adottato, con successo, dallo stato per sanare le irregolarità fiscali), che avrebbe però il vantaggio, non indifferente, di costituire la premessa fondamentale per l’avviamento di un processo di normalizzazione e qualificazione di questa “enclave”, di questa “isola che non c’è”, il cui funzionamento sembra, oggi, più misterioso di quello di una zona protetta dal segreto militare.
La terza, apparentemente più comoda, è quella di glissare elegantemente per l’ennesima volta, lasciando ad un augurabile e risolutivo intervento della magistratura e delle forze dell’ordine, l’arduo compito di riprendere definitivamente il controllo del territorio.
Eppure sono sicuro che, da un più asettico punto di vista antropologico, le “loro” usanze, la “loro” struttura sociale articolata dal nucleo familiare fino alle “loro” gerarchie sociali, si configurano come un patrimonio culturale particolare, una specificità da salvaguardare nel rispetto delle diversità e delle minoranze.
E allora?
A parte il sostanziale fallimento dei pur nobili tentativi di integrazione scolastica, che ci ribadiscono quanto impermeabili “loro” siano a qualsiasi più generale tentativo di integrazione, rimaniamo al solito punto morto, generatore di insofferenze, intolleranze, sensi di impotenza che, di tanto in tanto (fino ad oggi), vengono alleviati (confessiamolo magari con una certa vergogna), quando sentiamo parlare di qualche arresto o blitz da parte delle forze dell’ordine (ovviamente non locali) o quando, con cadenza annuale, una parte consistente di tale comunità si “allontana” (dove e a far cosa?) per tornare, mesi dopo, o quando veniamo a sapere che una parte consistente intende trasferirsi a Belvedere, amena e salvifica frazione di Siracusa.
Più in generale, esclusa la possibilità, non del tutto peregrina, di premere verso il riconoscimento di tale comunità come minoranza culturale da salvaguardare, oggetto di mirati provvedimenti amministrativi ed economici, in grado di favorirne l’evoluzione verso un nuovo assetto sociale più accettabile secondo i “nostri” criteri, resta la solita panacea di sempre: quella di girarci altezzosamente, da “veri netini”, dall’altra parte, ignorando ciò che in effetti avvertiamo come un problema locale ingestibile e senza soluzione, presentandolo alle personalità ed ai visitatori esterni, al più, come una delle tante sfaccettature folkloristiche della nostra amata Sicilia.
Pertanto, continuiamo pure ad escluderlo da qualsiasi programma o dibattito politico, da qualsiasi forma di pianificazione urbanistica e sociale, e più generalmente da qualsiasi scambio di opinioni al di fuori del contesto familiare o della passeggiata domenicale.
Smaltita l’anestetica temporanea ebbrezza data dalla trattazione di grandi principi etici e di legalità nella politica, sarebbe finalmente il caso di affrontare con altrettanta tensione morale anche le contraddizioni sociali in cui ci troviamo, tutti con un pizzico di coraggio, di iniziativa e di senso della responsabilità in più, senza il bisogno di sperare vanamente nell’intervento di improbabili eroi.
Da uno scritto del 2008 del mio amico LINCONTINENTE.