Il nuovo libro di Paolo Tiralongo
Un prezioso documento “politico”e sentimentale.
Paolo Tiralongo pubblica per la prima volta La città invisibile, memorie e percorsi smarriti di Notonel 1996 quando in lui, appassionato custode dell’anima dei luoghi del nostro territorio, era già forte la percezione di un irreversibile processo di dissoluzione del patrimonio identitario, di quel codice di riconoscibilità di una comunità scritto forse, parafrasando Calvino delle Città invisibili, più che nelle facciate monumentali dei palazzi barocchi del centro storico, negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, (in) ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole.
Codice scritto dunque, nel tessuto dei vicoli, nei profumi dei quartieri popolari, Agliastrello, Acqua Veccia, Mannarazze, nei volti, nelle lotte, nelle storie buffe o dolenti dei suoi abitanti, nei riti della tradizione, in quella particolare qualità, quasi magica, che ha qui lo scorrere del tempo.
Sembra che questo piccolo prezioso documento sentimentale, ma anche “politico”, testimonianza di un tempo di impegno collettivo nella e per la comunità, fatto di immagini e parole, voglia raccontare un mondo acciuffandolo per i capelli prima che inesorabilmente scompaia. Nel momento in cui Paolo Tiralongo scrive, si intravede ancora un bivio, ancora una possibile via di salvezza. Fra le righe si porgono infatti al lettore soluzioni perché questa eredità, questa connessione fra luoghi e persone si rigeneri, perché il rapporto fra lo spazio dell’abitare e la persona non perda la sua intima necessità, degenerando in una mero calcolo per la collocazione di più corpi in pochi metri quadrati, funzionale solo alla produttività e al profitto, piegato alle leggi dell’omologazione che genera i non luoghi, alveari di desolata povertà culturale ed umana, appelli perché, in definitiva, la plurale ricchezza della comunità non muoia lasciando il posto allo zero di una somma di individui soli.
In una città come Noto, se da una parte la proverbiale indolenza dei suoi abitanti e la marginalità geografica ne hanno impedito un vero sviluppo negli anni del boom economico, di contro questi stessi fattori convenzionalmente riconosciuti, ne hanno preservato le immense risorse monumentali, archeologiche, agricole. Questo l’assunto da cui muove un’analisi che porta l’autore a indicare nella formula dello sviluppo ecosostenibile, nella sperimentazione di una Noto/laboratorio che sa innovare e creare vero sviluppo rigenerando la tradizione, la sola possibile forma di eredità. L’alternativa a questo modello di sviluppo è la decadenza e l’abbandono. Uno spettro che, in termini urbanistici e antropologici significa svuotamento e “musealizzazione” del centro storico, destinazione dei suoi spazi alla sola fruizione turistica e al consumo, abbandono dei più antichi quartieri popolari e progressivo allontanamento dei cittadini dai luoghi identitari per confinarsi in periferie grigie e anonime, dove il codice di riconoscibilità si perde, definitivamente, nella serialità dei palazzi di cemento. Un rischio, un pericolo da scongiurare perché in netta discontinuità con un’eredità architettonica e urbanistica che seppe mantenere, nella cifra ricorrente della materia, la pietra e il suo colore, nella maestria decorativa degli scalpellini, un’unità, sempre rigenerata, una linea continua che attraversa i secoli e dalla antica Noto arriva alla Noto barocca fino a quella nuova degli anni ’50. Un processo che può avere come conseguenza la dissoluzione della comunità, un venir meno di quell’equilibrio armonioso fra persone e spazi del vivere quotidiano. Una visione che può nell’immediato, plaudire ad una operazione di marketing in cui la città, quasi gadget di se stessa, si vende bene ai turisti ma perde il suo popolo, la sua radice più profonda.
Il termine erede viene dal latino heres che ha la stessa radice del greco cherosche significa “deserto, spoglio, mancante”. Questo vuol dire che non c’è differenza tra l’erede e l’orfano perché chi può davvero ereditare è solo chi si scopre, chi diventa orfano. Lo status di eredi coincide con quello di orfani.
La domanda, forse scomoda, che tiene a battesimo questa nuova edizione del 2017 a mio avviso è allora proprio questa: consapevoli di essere definitivamente divenuti orfani di un passato che rese vivi quartieri come Agliastrello e Mannarazze, orfani dei saperi di Corrado Nanzarelli, dei moti di ribellione delle donne dei Mannarazze, delle lotte di Luigi Di Matteo, orfani del popolo, dell’impegno, orfani della comunità, orfani di un tempo più lento ed umano che ci portava però all’incontro e all’ascolto dell’altro.. oggi, che eredi stiamo diventando?
Possiamo leggere e sfogliare il lavoro di Paolo Tiralongo con grande godimento, sedotti dal suo sentimento elegiaco di nostalgia, sorridere dei motti arguti e delle trovate di Lisfera, ammirare le fotografie dell’autore intervallate dai disegni di Mariangela Gioacchini, immagini che lasciano trasparire la bellezza ingenua dei particolari, l’assoluta perfezione degli angoli meno visibili, il garbo gentile delle decorazioni nelle case più umili, possiamo riflettere sui tanti significati espliciti e sotterranei del racconto Evviva San Corrado e rimpiangere i giorni di condivisione e solidarietà vissuta da una generazione a cui, nel bene e nel male, si riconosce l’aver impresso un solco nella salvaguardia di questa preziosa eredità.
Oppure, possiamo chiudere questo libro e decidere di fare una passeggiata fra i quartieri popolari della Noto invisibile, portando con noi una domanda scomoda sulle labbra
Cettina Raudino
Dall’inferno si parla del Paradiso. Trovo che è un pò grottesco.